Valerio Dehò

Illuminazioni

“Solo la luce che uno accende a se stesso, risplende in seguito anche per gli altri”

(Arthur Schopenauer) 

La luce è la base di qualsiasi attività artistica oltre che “responsabile” della vita sul nostro pianeta. Ma certamente la scultura vive di luce proprio nel senso che la plasticità ha bisogno di ombre e le ombre si danno solo in presenza di un fascio luminoso che si rapporta con la materia, con i volumi, con la forma nascente da questo rapporto. Ma se è proprio la scultura, intesa come opera, a possedere una luce propria, cosa accade? Se la luce non è soltanto quella naturale, ambientale, ma qualcosa di artificiale che diventa essa stessa parte del lavoro artistico?

La risposta si trova nei lavori di Roberto Rocchi che la scultura la conosce bene e la insegna anche a Carrara, nell’Accademia di Belle Arti che guarda sulle più celebri cave di marmo del mondo. L’idea di Rocchi è quella di creare un dialogo tra la materia e la luce cioè di esaltare o rilevarne soprattutto la texture, per esempio, di un marmo bianco e “nevoso” come il greco Thassos, ridotto in fogli di pochi millimetri che la luce attraversa e permea. In alcuni lavori si ha l’idea di una sorta di scrittura posseduta dal marmo, qualcosa di genetico e profondo. Una sorta di “saggezza” accumulata nelle profondità geologiche, nell’abisso temporale in cui i movimenti implacabili della crosta terrestre hanno innalzato quelle cattedrali naturali chiamate montagne. Ci sono lavori in cui è impossibile non avere in mente il modello della pergamena, il foglio, come supporto della scrittura che contiene già non solo la predisposizione ad accogliere la scrittura, ma anche delle tracce segrete di un messaggio nascosto. Il marmo diventa trasparente come la roccia di alabastro, ma possiede una texture straordinaria che è fonte di altri pensieri. 

Le opere diventano illuminazioni, momenti in cui la materia attraverso la luce perde peso e fornisce l’occasione per una rivelazione, un’apparizione. Come, per esempio, in “Origini” (2022) in cui l’ortogonalità del taglio di luce genera una delle figure più classiche della storia dell’arte, la croce. Forma richiamata anche da uno dei chiodi della crocifissione in piombo accostato all’opera, quasi in attesa. Ma la croce va intesa come simbolo universale, come archetipo, senza chiudersi obbligatoriamente nella simbologia cristiana. 

In altri lavori a pavimento o da appoggiare su di una superficie piana, Rocchi realizza delle microarchitetture, minimali, dei paesaggi essenziali in cui compaiono anche elementi come delle scale che sembrano portare “oltre”, dentro la struttura segreta delle sculture, come in “Ignoto” (2019). Micro paesaggi in cui La luce sempre ottenuta con i led vira verso l’azzurro che è il colore del cielo, che si allontana dalla terra per portarci in una dimensione spirituale. Si presuppone sempre una dimensione “altra”, un altrove, come “Ignoto” in cui le dimensioni si moltiplicano, si immagina qualcosa che non si vede. Vedere oltre, quindi, come in “In fondo in fondo laggiù” (2021) un grande lavoro in cemento e led, che diventa una sorta di cannocchiale in fondo a cui vedere la luce, appoggiata e sostenuta su di un supporto informale, apparentemente casuale. Anche la grande scultura dal titolo “Tavola” (2018) rievoca il desco come momento di condivisione, ma è appoggiata su di una base solida che evoca una roccia, una montagna. Allora sembra diventare una sorta di altare moderno, stilizzato, etereo.

Altre opere raccontano di una luce che attraversa e si riflette nel foglio di marmo appena sollevato. Anche qui torna il tema dello svelamento, del sollevare qualcosa per vedere cosa c’è sotto. Ma anche l’idea di una precarietà che è voluta, cercata. Il sollevamento del foglio è sostenuto da elementi minimali, piccoli frammenti o elementi colorati. L’azzurro e il verde sono forse i colori che emergono, “Sguardo” (2022) è un lavoro che richiama l’astrazione americana di Barnett Newman o di Mark Rothko nella giustapposizione di due aree colorate sovrapposte. Ma è la luce e la texture del marmo che evocano la pittura, come un apparizione, una memoria visiva. Il paradigma pittorico viene evocato da un raffinato rapporto tra luce e materia. Anche il colore rosso in alcuni casi è protagonista, accendendo il marmo con una fiammata inattesa.

Rocchi poi adopera altri materiali come il piombo o la foglia d’oro e questo sempre per sostenere la magia generativa della luce, la trasformazione della materia, l’innalzamento di ciò che è ctonio verso l’etero e lo spirituale. Del resto, l’artista usa i materiali sia per le loro proprietà intrinseche che per il loro valore simbolico. Come in “Due fogli di marmo e piombo” (2022), opera alchemica in cui un foglio di piombo arrotolato si staglia sulla lastra di marmo, mentre in un angolo appare la foglia d’oro simbolo di trasmutazione. Un lavoro come “Infinito” (2021) è formato da cinque cubi in piombo e foglia oro compongono il pentagramma, simbolo di perfezione e di sapere trascendentale, in cui sono rappresentati i cinque elementi metafisici: la terra, l’acqua, il fuoco, l’aria e lo spirito come rappresentazione delle forze divine e spirituali che animano il Mondo.  I due metalli sono la contrapposizione più chiara tra la luce e le tenebra, opacità e trasparenza, tra il pesante e il leggero, tra la materia di Heidegger che si trasforma in “opera”, alleggerendo il peso della Terra, e dando forma all’arte. 

Del resto, anche i marmi o i graniti non sono usati senza una precisa scelta linguistica. Devono poter dire qualcosa all’interno del significato dell’opera. O possono anche essere ricoperti di colore quando in qualche modo, come in Ettore Spalletti, si vuole dare senso a ciò che non si vede e non solo alla parte emergente della scultura. Così in “Senza fine” (2022) in cui il marmo dipinto sostiene un disco composito in nero del Belgio, un sostegno che è solido e provvisorio nello stesso tempo. Anche nelle opere delle sospensioni Rocchi introduce questa precarietà, questo senso che in qualche modo smentisce la durezza e durevolezza dei materiali. L’ equilibrio diventa una relazione tra l’opera e ci guarda, tra illusione e realtà. 

Allora le “Illuminazioni”, titolo che richiama la celebre raccolta poetica di Arthur Rimbaud, sono il legame tra la luce e le tenebre, tra l’essere e l’apparire, tra il materiale e spirituale.  “Dare luce” in questo caso vuol dire anche riceverla. È uno scambio tra l’artista e il pubblico. Un invito a entrare nella scultura come una porta magica di un’esperienza che trascende i sensi e il visibile. 

Valerio Dehò