Flaminio Gualdoni

Occorre iniziare il ragionamento da Sospensione, che nel 2006 inaugura la stagione di svolta, ed evoluzione definitiva, nel lavoro di Roberto Rocchi. La proposizione della scultura come machina visiva, come congegno di cui la ragione formale sia la stessa concezione struttiva. Il convivere di materie potenti tutte, ma di conclamata eterogeneità e vocazione – l’acciaio, il riottoso granito nero, la sodalite aspra e suggestiva. Quelle shapes allarmate e vagamente minacciose e una situazione che fa del pondus non elemento di stabilità ma di tensione. Soprattutto, quel delucidare la forma introversa, la quale convoca lo sguardo e lo introietta, non offrendo certezze di sagoma e volume e inducendo a un aggirarsi perplesso, a ridosso di un vuoto che è primariamente condizione mentale. Questi valori tutti indicano che Rocchi va maturando da un classicismo riportato alle sue frequenze sorgive, verso un fare che sempre meno è condizionato dall’identità storica dello scultoreo, e ha si orienta verso situazioni plastiche costruite, articolazioni e non sintesi, spazi di complessa esperienza anziché asserzioni formali.
Alle spalle Rocchi ha un percorso precisato, alla cui radice è un ripensamento non banale, e ad alto tasso di criticismo, dell’idea di classico. Penso a Polena e a Donna con drappo, 1994, al Torso femminile del 1997. Polena è monumentale più per valore spaziale che per dimensione. La scelta del marmo bianco, sottoposto a un disagio volumetrico che lo rende plesso aereo con voglie di demateriazione, e quel suo trepido vivere di una luce calda e confidente, dicono che lo schema antropomorfo originario, la grecità risognata attraverso le vicende dell’arte d’Europa, si pone senza nostalgie, ma con forza di ragionamento inesausto, alla base di un orizzonte della forma possibile, del corpo plastico intimamente necessitato. Rocchi lavora non sul compiersi in plenitudine della forma, ma sul suo possibile, su una formatività che tende non a serrarsi in declinazione unitaria ma a sapersi per nuclei concettuali forti, evolutivi, espansivi.
Da ciò deriva anche la predilezione dell’autore per il frammento, per la sintesi brusca che serri, nel ridursi della referenza a mera suggestione intellettuale, la ragione dell’opera non in ciò che vedi, ma in quel che ciò che vedi evoca e promette. E’ tema antichissimo e modernissimo insieme, quello del frammento. Del quale già sappiamo, e da un paio di secoli ormai, la forza espressiva.
“L’immaginazione, supplendo a ciò che manca, aggiunge alla bellezza di ciò che resta una misura indefinita di bellezza, che suppone. Quando l’oggetto è integro, offre allo spirito un’immagine conclusa. Non c’è nient’altro al di là. Ma se questo frammento mi sembra così ammirevole, cosa sarebbe dunque del tutto? Allora la nostra stima non conosce più limiti”: così Quatremère de Quincy scrive nel 1818 all’amico Antonio Canova nella seconda delle lettere sui marmi Elgin.
Ecco, ciò che nell’approccio all’antico – e si dice, qui, della rivelazione strepitosa della scultura fidiaca – è pregiudizio favorevole, quando l’incompiutezza della forma rispetto alla previsione sia programmatica e deliberata si fa sottrazione del di quello che potremmo dire pregiudizio rappresentativo, in favore della capacità radiante della scultura di pronunciare se stessa e la propria ragione formativa intima, di innescare nello spettatore uno stream emotivo e intellettuale in cui l’esperienza piena dell’arte si decida e si compia.
Donna con drappo è, da questo punto di vista, proprio assunzione retoricamente forte del frammento, con quella struttura metallica di bruta neutralizzazione che si fa cornice e straniamento spaziale. Torso femminile spinge la nozione di somiglianza antropomorfa, di simmetria, di volumetria a una sorta di estremo schematico, agendo per sottrazioni e a un tempo per enfatizzazioni di valori formali: ed è, qui, la memoria non banale del recupero della formatività antica in chiave problematica così come il ‘900 l’ha consegnata a noi, da Gaudier-Brezska a Moore, da Arp a Prantl, da Viani a Signori.
Rocchi muove da ciò, ma alle sue viste è soprattutto la facoltà ulteriore di articolare la questione dello scultoreo, più ancora che per movenze di forma, per sostanze processuali. Si concentra sui topoi materiali e su quelli situazionali dell’opera. Il marmo, i marmi, dall’avvio del decennio nuovo entrano in dialogo/collisione stabile con materie adespote e brusche, il ferro anzitutto e l’ottone, il cristallo e il legno: e con il colore. La dismisura dell’encadrement spaziale, sia esso la cornice o il supporto o il basamento, si fa protagonista in una sorta di antagonismo con ciò che noi identifichiamo come scultura, facendone meramente una parte – e neppure primaria, spesso – dell’operazione e dell’opera, che proprio su tale antagonismo vive. La sagomatura geometrica esibita fa risonare la sostanza organicistica primaria della forma, e induce a porre in risalto cruciale elementi ulteriori della situazione plastica: l’equilibrio, il contrappeso, la sospensione, la gravità…
Equilibrio, Contrappeso, Sospensione divengono, nonché problemi plastici, i titoli stessi dei prodotti dell’operare recente di Rocchi. Il quale ormai lavora per situazioni plastiche costruite, e sulla potenza suggestiva di queste forme nelle relazioni plastiche determinate. Penso a Sospensione con seme, 2007, con quel trasfigurarsi dell’innesco organico con valore simbolico, il seme, in condizione formalmente allarmata, in quel gioco di gravità poste e negate, di shapes minacciose. Penso al recentissimo Spazio della mente, 2009, luogo totalmente altro – come un teatrino – di corpi eterogenei in valore di organizzazione che avverti sapienziale, di comportamento delle forme e delle materie, com’è nelle evoluzioni concettualmente schiarite di Spazio insidioso e MAAT, entrambe 2009.
Penso, soprattutto, alla decisione recente di affrontare la concezione plastica e il suo costruirsi a partire da materie e oggetti di potente, opaca presenza, senza il riscatto dell’identità storica dello sculturale. Pelle di chiodi, anch’essa 2009, si presenta a noi come un oscuro corpo dalle filigrane medievali, introverso, duro, vagamente minaccioso, eppure capace d’una luce e d’uno spazio autorevoli. Avverti qui, cresciuta in modo carsico entro le maglie d’una idea di scultura a forte componente fabrile e ben radicata sul valore antico di classico, il non banale retaggio surreale che alita nelle opere di Rocchi. E’ un surreale beninteso non iconografico, non tematico, ma posto alla sorgente dell’idea stessa del fare e del formare: la Donna cucchiaio di Giacometti, le sculture di Max Ernst e Noguchi, sono assai meno lontane di quanto possa, alla prima, apparire.